Il CAREGIVER è la persona che rimane accanto al paziente durante le fasi della malattia. Attraversa i momenti dell’emergenza quando arriva la diagnosi di tumore, percorre i lunghi periodi delle cure, e giunge sino all’epilogo che può essere la remissione della patologia oppure, se la diagnosi è infausta, la perdita della persona cara seguita. E’ quasi impossibile parlare dell’uno senza considerare l’altro.
Primo perché si crea una relazione stretta fatta di situazioni pratiche e quotidiane come i piani terapeutici, le chemio, le cure, la burocrazia, gli esami, accompagnare durante le visite, gestire il mangiare, il vestire, l’aspetto economico, il lavoro e tanto altro. Volutamente parlo di queste cose basilari perché significano due cose: che Il paziente non può giocoforza occuparsene, e che il caregiver rinuncia in gran parte ad occuparsi delle sue (rinuncia dettata dall’amore e dal legame con il paziente) per formare un sodalizio stretto. Non è una scelta, come non è stata una scelta il tumore. Ma di fatto porta le loro vite a questo nuovo assetto.
Secondo si avvicinano improvvisamente temi come la morte, la perdita, la paura, la rabbia, i sensi di colpa che da entrambi vengono vissuti da prospettive diverse. Il tempo da “per sempre” comincia ad avere una scadenza che può essere ravvicinate come gli esami e le cure immediate, e altre tipi di scadenze dilatate nei mesi e in anni dove si vive in uno stato di impasse emotivo costellato da incertezze, un po’ dovute all’essere impreparati alla situazione, e in gran parte all’incognita per il futuro .
Molteplici sono i fattori da prendere in considerazione per strutturare un intervento di sostegno su questo tipo di relazione, quando necessario. Ad esempio chiedersi se tra loro sono parenti prossimi come moglie e marito o genitore e figlio, o fratelli? E’ uno zio, un nonno un nipote che si ritrova ad assistere o ad essere assistito? E’ un amico caro? L’esito della malattia oncologica ha diagnosi infausto oppure no? In che momento del percorso viene richiesto l’intervento? E tanto altro.
Ma al di là di queste considerazioni qualcosa di silenzioso spesso accade tra i due. Le emozioni non sempre sono espresse, c’è un “non detto” che congela la parola. Come se non toccando il dolore con il cuore o trattenendo il respiro della paura, in qualche modo non se ne venga travolti. Molte persone raccontano di non aver mai detto la parola tumore durante tutto il periodo della malattia, o di non aver mai dato spazio allo sconforto difronte al caro ammalato, o di non aver mai pianto, o di non aver mai parlato esplicitamente dell’eventualità della morte. Tutto secondo un tacito accordo che lascia l’inespresso in balia di se stesso, e che in futuro potrebbe riorganizzarsi in vissuti di sofferenza emotiva.
Anche le incomprensioni possono rimanere taciute o non chiarite in modo esplicito. Semplici atteggiamenti o comportamenti diventano oggetto di accesi scambi di opinioni tra di loro senza mai arrivare a dichiarare la paura, la rabbia o il dolore che si celano dietro. Ad esempio in uno scenario in qui la fase di emergenza è finita, le cure sono andate a buon fine e si può tornare alla “normalità”, diversi possono essere gli atteggiamenti del caregiver e della persona assistita. Chi supera un cancro comunque si sentirà sempre intimamente “a rischio” e nel frattempo potrebbe aver cambiato le sue priorità di vita, i suoi comportamenti; fare cose inaspettate per chi lo conosce da tanto tempo e diventare un’altra persona nei modi, negli atteggiamenti. Questo cambiamento è difficile da accettare per chi gli sta vicino, perché vuol dire che non sarà mai più tutto come “prima”, vuol dire che il capitolo non è chiuso definitivamente, vuol dire dover cambiare insieme al paziente costruendo una nuova relazione.
Difronte a tutto ciò l’urlo silenzioso del caregiver, o dei familiare più vicini è “Torna come prima, perché allora vuol dire che non è successo nulla e io non dovrò più aver paura di perderti”. Ma d’altro canto il paziente si sente profondamente cambiato e soffre nel non veder riconosciuto questo suo nuovo modo di essere. Tutto questo rimane spesso nel “non detto” e può anche accadere che il paziente si ritiri dietro un comportamento che mima il suo modo di esser prima della malattia (attraverso il compiacimento) per tranquillizzare i propri cari. Ma rimane in sofferenza interiore, scalpitando la sua voglia di esser altro, deluso nel non essere stato compreso. Oppure mantiene determinato il suo nuovo modo di sentire la vita, ingaggiando una lotta più o meno esplicita con i familiari o persone a lui vicine che in tutti i modi tentano di farlo tornare come prima anche attraverso considerazioni del tipo “Non ti riconosco più” “Prima non lo avresti mai detto o fatto”.
Posizioni e nodi che con il tempo si aggrovigliano allontanando tra loro, chi un tempo formava la squadra indissolubile per vincere contro il nemico.